Gabriele Salvaterra
Superficie come soglia. Le costruzioni di Paolo Radi a Bolzano
BOLZANO | Antonella Cattani Contemporary Art |21 novembre 2014 – 30 gennaio 2015
Gabriele Salvaterra intervista Paolo Radi per Espoarte in occasione della mostra a Bolzano presso la galleria Antonella Cattani C.A. 2014
Vuoi parlarci dei lavori che presenti oggi alla Galleria Accart di Bolzano?
Si tratta di lavori realizzati appositamente per la mostra. Conosco la galleria dal 2009, per cui ho pensato alle opere già all’interno dello spazio espositivo.
Nella tua ultima produzione si nota un ulteriore processo di sottrazione che mira a una grande essenzialità. Vedo infatti che le cromie si limitano quasi esclusivamente al bianco e nero… Questa mostra rappresenta un nuovo approdo all’interno del mio percorso, in un linguaggio che si basa ormai quasi esclusivamente su luce e ombra. Questo aspetto è sempre esistito nel mio lavoro ma va diventando sempre più sottile, tendo ad azzerare sempre di più, a togliere quanto eccede. In queste opere vedi poi la costanza di un movimento circolare, un segno che rimanda alla questione del tempo, tema a me molto caro: il tempo dell’osservazione, dell’attraversamento dell’opera con lo sguardo, dello spostamento fisico davanti al lavoro. Quest’idea del tempo, del finito e dell’infinito, viene comunicata attraverso una costante messa in crisi della visione.
Mi interessa parlare della dinamica superficie‐profondità che si viene a creare nei tuoi lavori. Sono opere che vivono sulla superficie, ma con la loro trasparenza invitano lo sguardo ad attraversarle. Ce ne vuoi parlare?
La superficie consente al fondo di manifestarsi e , viceversa, il fondo fa risaltare la superficie. Il materiale opalescente che ricopre l’opera rende impossibile la messa a fuoco, non consente di capire ciò che sta davanti e cosa sta dietro.
Questo calibrare lo spazio e gli aggetti dei materiali punta proprio a uno smarrimento della visione, a una certa ambiguità percettiva. C’è una volontà di mettere in crisi l’osservatore?
Sì ma piuttosto tengo all’idea del ricordare, di immagini puntuali e precise nel momento in cui le pensi che poi tendono a diventare sfocate e a scomparire nell’indistinto. C’è un po’ questo nel mio lavoro.
Lo sfaldare i contorni e quest’idea di infinito mi fanno pensare all’approccio spaziale di James Turrel e Robert Irwin, sono riferimenti che ti interessano?
Io credo che il discorso dell’infinito sia un’urgenza che accomuna molte persone e in particolare chi ricerca nei territori dell’arte, quindi ci sta assolutamente che si possano trovare delle affinità con altri artisti. Le mie influenze sono soprattutto filosofiche e ruotano attorno a queste tematiche che poi, in fondo, corrispondono a tutti gli interrogativi che si pongono coloro che abitano questo pianeta, con tutti i dolori che ne conseguono.
Quale reazione ti piacerebbe suscitare nell’osservatore?
Mi piacerebbe che il mio lavoro creasse un vuoto e che l’osservatore ne traesse uno smarrimento percettivo, in fondo penso che siamo tutti smarriti come esseri. Poi se riesco a fare sostare una persona davanti al lavoro e a guardarlo per un tempo prolungato, questo per me è il successo dell’opera.
E per quanto riguarda il medium come ti descriveresti?
Sono opere a parete ma con una forte carica tridimensionale.
Da questo punto di vista ho un problema: mi ricordo che a vent’anni un critico mi disse che dovevo decidere se volevo fare il pittore o lo scultore… Io ci sto ancora pensando. Lavoro come se fossi uno scultore però prima disegno e progetto, è presente un’immagine ma sono affascinato dall’idea scultorea che questa possa cambiare a seconda della posizione dello spettatore. Quindi insomma non ho ancora deciso…
Non voglio entrare troppo nella tua vita privata ma che influenze artistiche si possono trovare tra il tuo lavoro e quello di tua moglie Emanuela Fiorelli? Avete più volte esposto insieme e le sue opere recenti sono state presentate proprio qui ad Accart pochi mesi fa.
Sicuramente siamo accomunati dall’interesse verso lo spazio, anche se lei forse è più intrigata dallo spazio da un punto di vista fisico mentre io dal discorso del tempo, anche se poi magari a livello formale le problematiche potrebbero apparire simili. In verità l’idea della luce che rivela le immagini attraverso la temporalità è quello che caratterizza il mio lavoro rispetto al maggiore rigore geometrico dell’approccio di Emanuela. Oltre a questo siamo reciprocamente giudice uno dell’altro e ci supportiamo a vicenda in un mondo dell’arte spesso difficile da affrontare.
Mi piace sempre puntare ai confronti e vorrei sapere come ti poni rispetto alla grande tradizione italiana
che ha fatto del quadro un terreno di sperimentazione tridimensionale. Penso a Fontana, Castellani, Bonalumi… Devo dire che sono piuttosto autistico, guardo soprattutto a quello che faccio, sono monomaniacale. Detto questo Fontana è un grande, è qualcuno che ha aperto una strada. Con Bonalumi ci siamo conosciuti e lui era non solo un grandissimo artista ma anche una persona umanamente eccezionale. In realtà però se penso ai miei primi quadri ero molto interessato a Masaccio, a Piero della Francesca: cercavo di scardinare l’immagine ma cercavo di conservare la loro essenza di spazio e colore. La mia idea di luce e spazio viene soprattutto da quel passato.
Vuoi parlarci dei lavori che presenti oggi alla Galleria Accart di Bolzano?
Si tratta di lavori realizzati appositamente per la mostra. Conosco la galleria dal 2009, per cui ho pensato alle opere già all’interno dello spazio espositivo.
Nella tua ultima produzione si nota un ulteriore processo di sottrazione che mira a una grande essenzialità. Vedo infatti che le cromie si limitano quasi esclusivamente al bianco e nero… Questa mostra rappresenta un nuovo approdo all’interno del mio percorso, in un linguaggio che si basa ormai quasi esclusivamente su luce e ombra. Questo aspetto è sempre esistito nel mio lavoro ma va diventando sempre più sottile, tendo ad azzerare sempre di più, a togliere quanto eccede. In queste opere vedi poi la costanza di un movimento circolare, un segno che rimanda alla questione del tempo, tema a me molto caro: il tempo dell’osservazione, dell’attraversamento dell’opera con lo sguardo, dello spostamento fisico davanti al lavoro. Quest’idea del tempo, del finito e dell’infinito, viene comunicata attraverso una costante messa in crisi della visione.
Mi interessa parlare della dinamica superficie‐profondità che si viene a creare nei tuoi lavori. Sono opere che vivono sulla superficie, ma con la loro trasparenza invitano lo sguardo ad attraversarle. Ce ne vuoi parlare?
La superficie consente al fondo di manifestarsi e , viceversa, il fondo fa risaltare la superficie. Il materiale opalescente che ricopre l’opera rende impossibile la messa a fuoco, non consente di capire ciò che sta davanti e cosa sta dietro.
Questo calibrare lo spazio e gli aggetti dei materiali punta proprio a uno smarrimento della visione, a una certa ambiguità percettiva. C’è una volontà di mettere in crisi l’osservatore?
Sì ma piuttosto tengo all’idea del ricordare, di immagini puntuali e precise nel momento in cui le pensi che poi tendono a diventare sfocate e a scomparire nell’indistinto. C’è un po’ questo nel mio lavoro.
Lo sfaldare i contorni e quest’idea di infinito mi fanno pensare all’approccio spaziale di James Turrel e Robert Irwin, sono riferimenti che ti interessano?
Io credo che il discorso dell’infinito sia un’urgenza che accomuna molte persone e in particolare chi ricerca nei territori dell’arte, quindi ci sta assolutamente che si possano trovare delle affinità con altri artisti. Le mie influenze sono soprattutto filosofiche e ruotano attorno a queste tematiche che poi, in fondo, corrispondono a tutti gli interrogativi che si pongono coloro che abitano questo pianeta, con tutti i dolori che ne conseguono.
Quale reazione ti piacerebbe suscitare nell’osservatore?
Mi piacerebbe che il mio lavoro creasse un vuoto e che l’osservatore ne traesse uno smarrimento percettivo, in fondo penso che siamo tutti smarriti come esseri. Poi se riesco a fare sostare una persona davanti al lavoro e a guardarlo per un tempo prolungato, questo per me è il successo dell’opera.
E per quanto riguarda il medium come ti descriveresti?
Sono opere a parete ma con una forte carica tridimensionale.
Da questo punto di vista ho un problema: mi ricordo che a vent’anni un critico mi disse che dovevo decidere se volevo fare il pittore o lo scultore… Io ci sto ancora pensando. Lavoro come se fossi uno scultore però prima disegno e progetto, è presente un’immagine ma sono affascinato dall’idea scultorea che questa possa cambiare a seconda della posizione dello spettatore. Quindi insomma non ho ancora deciso…
Non voglio entrare troppo nella tua vita privata ma che influenze artistiche si possono trovare tra il tuo lavoro e quello di tua moglie Emanuela Fiorelli? Avete più volte esposto insieme e le sue opere recenti sono state presentate proprio qui ad Accart pochi mesi fa.
Sicuramente siamo accomunati dall’interesse verso lo spazio, anche se lei forse è più intrigata dallo spazio da un punto di vista fisico mentre io dal discorso del tempo, anche se poi magari a livello formale le problematiche potrebbero apparire simili. In verità l’idea della luce che rivela le immagini attraverso la temporalità è quello che caratterizza il mio lavoro rispetto al maggiore rigore geometrico dell’approccio di Emanuela. Oltre a questo siamo reciprocamente giudice uno dell’altro e ci supportiamo a vicenda in un mondo dell’arte spesso difficile da affrontare.
Mi piace sempre puntare ai confronti e vorrei sapere come ti poni rispetto alla grande tradizione italiana
che ha fatto del quadro un terreno di sperimentazione tridimensionale. Penso a Fontana, Castellani, Bonalumi… Devo dire che sono piuttosto autistico, guardo soprattutto a quello che faccio, sono monomaniacale. Detto questo Fontana è un grande, è qualcuno che ha aperto una strada. Con Bonalumi ci siamo conosciuti e lui era non solo un grandissimo artista ma anche una persona umanamente eccezionale. In realtà però se penso ai miei primi quadri ero molto interessato a Masaccio, a Piero della Francesca: cercavo di scardinare l’immagine ma cercavo di conservare la loro essenza di spazio e colore. La mia idea di luce e spazio viene soprattutto da quel passato.